Il primo parto non fu per niente una passeggiata: la gravidanza di mia moglie era segnata dalla placenta previa, all’inizio quando me lo dissero non capii subito del rischio e della gravità del problema: la placenta si era posizionata nella parte bassa dell’utero e poteva ostruire parzialmente o completamente l’uscita’ del canale del parto.
Mia moglie non era per niente tranquilla anche se non lo dava a vedere ai parenti; oltretutto doveva affrontare fastidiose perdite di sangue, io mi sentivo impotente e affidavamo le nostre speranze alle competenze e alla professionalità dei medici della Mangiagalli di Milano.
Per fortuna che questa placenta previa fu diagnosticata in tempo, non potevamo più aspettare, fu programmato un cesareo all’ottavo mese di gravidanza.
Potete immaginare l’angoscia e le preoccupazioni che un intervento chirurgico può causare anche se avevamo la sensazione di essere in buone mani.
A 26 anni ci apprestavamo a diventare genitori e lo facevamo affrontando da subito un ostacolo imprevisto.
L’operazione chirurgica andò bene, pochi minuti e venne alla luce nostro figlio Simone! Pochi minuti per salutarlo, per pulirlo e abbracciarlo, finalmente lo vedevo, mia moglie no, ancora sotto effetto dell’anestesia.
Una corsa al nido e l’amara scoperta:
“Lo dobbiamo intubare, un polmone deve ancora svilupparsi, ci vorrà qualche giorno ma poi andrà a posto, non si preoccupi” mentre lo portavano in terapia intensiva.
Ero diventato papà da
qualche minuto ed ero già angosciato, andai da mia moglie, la trovai in una
stanza da sola che piangeva, con un filo di voce mi disse:
“Non l’ho visto” e subito cercai di consolarla:
“Tesoro sta bene, non piangere, andrà tutto bene”.
Il nostro cucciolo
prematuro passò quasi tre settimane in terapia intensiva con piccoli
miglioramenti quotidiani. Lo andavo a trovare ogni mattina, prima del lavoro, e
la sera mentre mia moglie si fermò a dormire in ospedale.
Era tutto intubato e non riuscivamo a prenderlo in braccio, ci mancava quel
contatto anche se eravamo certi che sentisse la nostra presenza.
Io lo accarezzavo sulla testolina, gli dicevo che papà c’era, che era stato un po’ sfortunato ma che avremmo recuperato sia le coccole che gli abbracci.
La terapia intensiva
neonatale è un posto che ti segna per tutta la vita, il nostro caso era il più
tranquillo, i medici ci dicevano sempre che era solo questione di tempo.
Ma è in luoghi come questi che ti rendi conto che siamo essere indifesi
rispetto al destino e l’unica cosa che ci rimane da fare è lottare fino alla
fine.
Dopo 20 giorni di terapia intensiva, finalmente portammo nostro figlio a casa: era così piccolo e noi genitori così giovani e alle prime armi… eravamo emozionatissimi: il cuore mi batteva forte in gola, nostro figlio era fuori pericolo, finalmente lo portavamo a casa!
La prima sera non la scordo più: lasciammo accesa la luce del corridoio tutta la notte per tenerlo sotto controllo, quel fagotto ci trasmetteva una carica di responsabilità non indifferente, la stanchezza prese il sopravvento solo a notte inoltrata.
Non mi resi subito conto, ma in quel piccolo bilocale a Milano, giorno dopo giorno, prendeva forma un altro miracolo: ci sentimmo ancora più uniti, io e mia moglie, adesso che c’era lui con noi.
Il superare insieme quel periodo difficile ci diede un’ulteriore forza nell’affrontare gli inconvenienti di ogni giorno: io e mia moglie ce la cavammo bene trovando subito i nostri ritmi.
Mia moglie fu esemplare, il suo istinto materno contagiò quel minuscolo appartamento tanto da farlo apparire un castello, io ero il papà più felice del mondo, ciò di cui avevo bisogno era lì, la mia famiglia!.